German Cano, da venditore di scarpe a eroe argentino in Brasile: la storia assurda dell’idolo della Copa Libertadores.
La Copa Libertadores è il Futbol, quello vero. Quello che parte dai palleggi sul marciapiede da bambino e finisce su terra a scivolare per recuperare un pallone.
E non c’è nulla che tenga alla Libertadores, niente di più importante, a tal punto da far arrivare Edinson Cavani, uno che ha giocato in Serie A, Premier League, Liga e Ligue 1 e che ha alzato al cielo la bellezza di 26 trofei, a dire che li avrebbe barattati tutti per vincere quella Libertadores.
Quella coppa è più di un trofeo, è la storia di riscatto di chi in Europa ha fallito, come Ganso o di chi un giorno sogna di arrivarci, come Valentin Barco, di chi ha vinto tutto invece, come Marcelo o di chi si è imposto ad altissimi livelli, come Felipe Melo, ma che continua ad emozionarsi ogni volta che scende in campo per quella competizione.
E la Copa Libertadores è la competizione di tutti, dal ragazzino e il padre che partono verso Rio de Janeiro senza nemmeno il biglietto per la partita e per farlo vendono la moto del papà e la Playstation del bambino, fino a German Cano, che rappresenta forse il punto più alto del significato di alzare quella coppa.
Libertadores a Cano: la storia incredibile di un venditore di scarpe
Perché in pochi avrebbero potuto immaginarsi qualcosa di simile: quando Cano segna nella semifinale che porta al match contro il Boca Juniors, timbrando il cartellino in casa dell’Internacional a tre minuti dalla fine, non esulta mostrando la “L” di suo figlio Lorenzo, come fa da ormai dieci anni a questa parte.
L’euforia lo sovrasta e lui si mette a fare il giocatore di golf, fra il delirio del suo pubblico. Lui, un argentino in maglia Fluminense, club storico brasiliano, che in finale si trova dinanzi agli argentini per eccellenza il Boca, nello stadio brasiliano per eccellenza, il Maracanà.
E lui, che era partito vendendo scarpe, proprio nella sua argentina rischia a casa sua di veder sfumare davanti a se il suo destino da calciatore: tifa fin da piccolo il Lanus, che investe su di lui da giovanissimo; allo scoccare dei diciannove anni è già in prima squadra.
Il Lanus in realtà lo vede molto prima, quando di anni ne aveva appena otto e se ne prende cura, portando in società tutta la famiglia, compreso suo fratello Julian e sua madre Recalde, lei assunta per distribuire caffe con latte ai ragazzi delle giovanili.
Lui, tifoso da sempre della maglia che indossa, forse per la troppa pressione, forse per uno scherzo del destino, con gli amaranto fallisce: quello che aveva tutta l’aria di essere un craque segna appena due reti in sedici uscite. Inizia una girandola di prestiti, fra Chacarita Juniors e Colon, ma fallisce ovunque.
Il primo guizzo arriva al Deportivo Pereira, in Colombia, dove segna nove reti in diciotto partite, trascinando letteralmente un club spacciato in partenza ad una salvezza insperata.
Da quel momento in poi, non si ferma più: in due anni di Indipendiente a Medellin segna 51 volte in 87 gare, e se il Pachuca, in Messico, poteva rischiare di mettere in serio dubbio la sua continuità, il ritorno in Colombia lo riporta sui ritmi precedentemente conosciuti, con addirittura 66 marcature in 84 partite.
Poi, però, sarà in Brasile a trovare ufficialmente l’El Dorado: ci punta il Vasco da Gama, con cui segna 25 volte in due anni; non tantissimo, non abbastanza se si sbircia il rendimento che avrà poi alla Fluminense.
Arriva nella squadra del Tricolor Carioca a 34 anni e in 54 gettoni, va a Jackpot la bellezza di 31 volte. Lui, un argentino, la patria di Messi e Maradona, nella terra di Ronaldo, Ronaldinho e Rivaldo. Nella terra di Pelè e Romario.
In Brasile diventa un simbolo: ai tempi del Vasco mette in vendita tutti i suoi oggetti firmati, devolvendo tutto il ricavato alla comunità di Tujuti, una delle più povere di Rio, poi esulta alzando al cielo la bandiera arcobaleno, simbolo dei diritti LGBTQ.
L’argentina vince il Mondiale in Qatar, ma lui non entra nemmeno fra i 55 pre-convocati, facendo storcere il naso a due paesi interi, quello che rappresenta e quello in cui gioca. Lui, senza remore, esulta a Lionel Messi che alza la Coppa, poi torna a fare il suo, come ha sempre fatto.
In Libertadores ha un sogno: sollevare il trofeo e farlo davanti al Boca Juniors. Segna sei reti in altrettante gare nel girone, poi si appanna agli ottavi contro l‘Argentinos Jr, per tornare più pronto che mai.
Contro l’Olimpia fa un gol e un assist nel 2-0 dell’andata e segna una doppietta nell’1-3 del ritorno. Quindi contro l‘Internacional, in semifinale, fa due reti nel 2-2 casalingo e fa gol + assist nell’1-2 esterno che vale il pass per Rio.
Contro il Boca segna il primo dei due gol che regaleranno quella benedetta coppa alla Flu per la prima volta nella sua storia, grazie ad una sua indelebile marcatura e a 19 minuti di ordinaria follia di John Kennedy, un brasiliano classe 2002 che per l’America porta sulle spalle il peso di un nome tutt’altro che leggero e che disputerà un’intera carriera in meno di venti minuti.
Ma questa è un’altra storia.