In attesa del derby regionale col Frosinone, la Roma di Mourinho ha fatto cinque punti in sei partite: ecco le colpe del tecnico portoghese per il pessimo inizio di stagione.
Cinque punti in sei partite non possono essere un caso, specialmente se alcune delle lunghezze sono state lasciate per strada contro compagini che dovevano lottare per non retrocedere, come la Salernitana, il Verona e il Genoa.
Forte (ma nemmeno troppo) di questa ragione, la panchina del mister portoghese inizia a scricchiolare: quando i Friedkin hanno deciso di dargli le chiavi di Trigoria, mettendosi completamente a disposizione dello Special One, l’unico obbligo inserito è stato quello di arrivare in Champions League entro tre anni.
Un progetto ambizioso ma doveroso, per riportare un club che non arriva nei primi quattro posti da quel Roma-Porto con in panchina Eusebio Di Francesco, con l’idea di tornare a sentire quella dannata bellissima musichetta.
Roma, così non va: le cinque colpe di Mourinho
E se è vero che Mou è riuscito a portare i capitolini a giocarsi due finali europee consecutive – record assoluto nella storia del club – è altrettanto reale che alla terza stagione della più importante competizione europea non si è vista ancora nemmeno l’ombra.
E innanzi tutto, un problema nitido che attanaglia l’inizio dei giallorossi è un tradizionalismo inaspettato, che non è mai appartenuto al mister. Nonostante le varie intemperie, infatti, la Roma ha sempre giocato con un centrale di difesa e due braccetti. Anche quando la situazione fisica dei giocatori non lo consentiva.
Addirittura nell’incontro perso 4-1 con il Genoa, dopo l’infortunio di Llorente per un breve periodo di tempo la scelta è stata quella di abbassare Cristante a centrale di difesa, nonostante fosse il più pericolo in fase offensiva dei capitolini.
E questa mossa, votata al comparto arretrato a tre, spesso è costata numerosi punti persi per strada: se è vero che la Roma ha dei limiti tecnici evidenti (come il mister stesso spesso ripete come un mantra), pare che JM non abbia fatto niente in particolare per compensare a queste mancanze con il lavoro tattico di base.
La Roma, infatti, non gioca. Non fa due passaggi in fila, ma va alla ricerca della punta con lancioni, pregando che Romelu Lukaku sia in giornata e che quindi la metta giù per azzeccare la sponda sul trequartista. Un’idea tattica che puoi adottare se alleni il Real Madrid, favorita per vincere tutto ogni anno.
E se nelle sue esperienze pregresse, l’arma in più era sempre stata quella comunicativa, a Roma sembra mancare: nelle parentesi con Inter e Chelsea, ma anche Real e Tottenham, si parlava di un tecnico capace a fare da “parafulmine”, esponendosi lui alle critiche, ma senza intaccare i suoi giocatori.
Nella capitale, invece, a sentirlo parlare, sembra quasi come se la compagine giallorossa vivesse dentro una bolla, dalla quale per uscire deve combattere ogni giorno contro tutti: e allora una volta è l’arbitro, un’altra gli infortuni, quindi l’uniformità di giudizio.
Continue lamentele, appigli, che però necessariamente non permettono il confronto, l’ammissione. Parlare chiaro in conferenza stampa, senza avere sempre l’impressione che si stia girando attorno all’argomento senza affondare mai, farebbe comprendere ai calciatori i limiti e le possibilità.
Spiegherebbe ai giocatori che non è sempre colpa di un fattore esterno, ma che probabilmente c’è bisogno di dare di più in campo, perché nonostante l’organico non sia il migliore del campionato, dati alla mano è tutto fuorché di basso livello.
E gli attriti con la società non sembrano essersi mai placati: se nella prima stagione si lavorava in simbiosi con tutti i componenti del team, nelle ultime sessioni di mercato è sembrato esser quasi uno scarica barile fra lo Special One e il direttore sportivo Tiago Pinto, che ha fatto degli ottimi investimenti, seppur spendendo poco, con inevitabili lamentele di Mou.
L’impressione, dall’esterno, è quello di un lavoro che non vada più di pari passo con le richieste della dirigenza, schiavi di una relazione che procede solamente per inerzia, in attesa della conclusione naturale del contratto a giugno del 2024, come spesso ripetuto dal mister, dicendosi stufo di essere sempre “solo” e l’unico a “metterci la faccia”.
Ma forse il nodo più difficile da accettare è il paradosso tra la volontà del tecnico di creare un instant team, capace di vincere tutto e subito, e la condizione economica della Roma. Le casse dei giallorossi, già piuttosto pesanti, non possono permettersi investimenti esosi e il Faiplay Finanziario non aiuta i capitolini a mettere in piedi un progetto duraturo.
L’obbligo di avere calciatori pronti oggi, costringe il DS a puntare sul mercato nomi come Renato Sanches, Paredes, Aouar o Dybala. Tutti profili forti, pronti e con esperienza, ma che riesci a prendere a pochi soldi per una condizione fisica ai limiti dell’accettabile, che poi puntualmente lasciano i capitolini fra l’erba alta durante la stagione con assenza prolungate e decisive.
Se a fine stagione la storia dovesse andare avanti, allora Mourinho dovrà capire che la squadra che allena non è il Real Madrid o questo Chelsea spendaccione, ma una compagine che ha bisogno di fare scouting per potersi permettere una ricca sessione di mercato.
Lavorare in due modi diversi non porterà mai più nulla di un sesto posto che si è ripetuto per già due volte di fila e che in questa stagione sembra esser addirittura un miraggio.