A quasi 10 anni dalla sua scomparsa, la moglie torna a parlare della lunga lotta dell’attaccante contro la Sla
Era il 27 giugno del 2013 quando prematuramente veniva a mancare Stefano Borgonovo all’età di 49 anni. L’attaccante di Milan e Fiorentina tra le altre, ha dovuto combattere a lungo con la Sla, una malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, cioè le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che permettono i movimenti della muscolatura volontaria.
A distanza di tempo la moglie Chantal, a Il Giorno, ha parlato della malattia che nel tempo ha colpito sempre più spesso i giocatori di calcio: “Sono convinta che se Stefano non avesse fatto il calciatore non si sarebbe ammalato o magari questo sarebbe successo in età avanzata. Invece è morto giovane perché ha giocato a calcio“.
Chantal Borgonovo: “A nessuno interessa capire e rassicurare”
“Tutto riporta alla mente quei drammatici ricordi. Mi metto dalla parte delle mogli anche se non le conosco. Il nostro percorso è simile – afferma Chantal Borgonovo parlando delle recenti scomparse di Sinisa Mihajlovic e Gianluca Vialli e delle loro famiglie –, i nostri mariti facevano lo stesso lavoro. E questo mi induce a fare delle riflessioni, anche sulla mia storia“. “La Sla in particolare – prosegue – ha colpito negli anni troppi calciatori, in età giovanile o da adulti. Lo dicono le statistiche e le ricerche, pure le più recenti. Se Stefano avesse fatto un altro tipo di vita non si sarebbe ammalato, purtroppo il perché e il per come non lo sa nessuno“.
“Sono anni che attendo delle risposte – continua Chantal –. Ai tempi in cui Stefano giocava tutto ciò che riguardava la gestione sanitaria era affidata al medico sociale di cui Stefano aveva fiducia. Io so che mio marito non ha mai preso volontariamente farmaci strani, assumeva qualcosa solo sotto il controllo dello staff sanitario se prescritto“. Infine chiosa tornando alle recenti scomparse dei calciatori: “Una cosa è sicura: erano della stessa generazione di Stefano o di quella successiva, quindi si conoscevano avendo fatto lo stesso lavoro, quello è un ambiente molto ristretto. Certamente hanno riaperto una questione che però vedo si è richiusa altrettanto rapidamente. Di sicuro vedo che dà fastidio parlarne, non so se dipenda più da interessi economici o da altro. Ma è giusto ricordare che tutte le indagini su queste malattie sono state fatte da ricercatori non del mondo del calcio. Dovrebbe essere un dovere sociale capire e rassicurare, invece non interessa“.