De Rossi e De Zerbi, calcio in progressione e costruzione dal basso. Gli allenatori “del futuro” mostrano un gioco diverso che non appaga.
Luis Enrique parlava di “projecto” a lungo termine quando proponeva il tikitaka a Roma. Nella Città Eterna, abituata ad avere fame, il risultato è stato tanta attesa e parecchi rimpianti. Il problema non era negli interpreti: qualcuno poteva avere più responsabilità di altri, vedi Kjaer che non era certo il centrale che conosciamo oggi, o meteore come Fernando Gago.
Profili interessanti come Bojan Kirkic che dovevano sbocciare e hanno reso al di sotto delle attese. Non è, però, solo questione di tecnica se determinate filosofie di gioco non attecchiscono in Italia: la “colpa” – anzi: principale imputazione, se vogliamo parlare analiticamente – è della mentalità di un sistema che rischia poco per ovvie ragioni. In primis economiche. Il calcio italiano è tenuto su da introiti milionari che, però, non corrispondono a realtà: affatto casuali le parole di Commisso quando afferma che il calcio nello Stivale è “malato”.
In principio era Luis Enrique: il “projecto” di un calcio cosmopolita
La cura consisterebbe nel tornare tutti con i piedi per terra: meno soldi, più concretezza. Ma i luoghi comuni non fanno la felicità in generale, figuriamoci sul rettangolo verde. Giocare a pallone resta un sogno di tutti e chiunque vuole vedere un giocatore da copertina. Il punto, semmai, è un altro: prima di arrivare ad esserci in copertina, un tesserato deve mostrare qualche caratteristica particolare. Aspetti che balzano agli occhi di chiunque sia disposto a investire: nel caso specifico Luis Enrique lo era, non convocava sempre gli stessi elementi, ma dava qualcosa che oggi è merce rara. Non solo nel calcio. La fiducia.
L’ex C.T., quando era a Roma, fece giocare spesso uno come Caprari che poi ha fatto fortuna altrove. Chiunque l’avrebbe centellinato: il tecnico asturiano, invece, l’ha buttato nella mischia nel tridente con Totti. Poteva utilizzare più spesso Vucinic, ma Luis Enrique non ha mai amato le cose facili. Tantomeno scontate. Il prezzo da pagare è qualche imbarcata di troppo: Firenze, Lecce, Slovan Bratislava per citare le cadute più rumorose. 15 anni che un allenatore giallorosso non perdeva così male all’esordio europeo. In tal caso si trattava del preliminare di Europa League. L’allenatore – che poi fece fortuna a Barcellona – non badava all’immediatezza ma cercava di costruire una filosofia di gioco per il futuro. Questo l’ha imparato, dopo averci giocato insieme, anche Daniele De Rossi.
De Rossi “parla” asturiano
L’ex centromediano metodista, oggi, allena e dire che ha un gioco simile a quello di Luis Enrique sarebbe un’eresia: li accomuna, però, l’utopia di credere in un calcio differente. Dove non c’è sempre il titolare fisso che trascina gli altri, ma esiste una condivisione d’intenti: l’obiettivo comune che, nel caso di DDR con la Spal, si chiama salvezza. L’ex Roma parte bene, ma sviluppa peggio: la squadra va a corrente alternata fino a spegnersi, la goccia che fa traboccare il vaso è la sconfitta con il Bari per 4-3. Nonostante il contributo fondamentale del neo acquisto Nainggolan.
Un grande nome, da solo, non fa la differenza. Può aiutare, però, sul piano della mentalità. La stessa che De Rossi sta cercando di plasmare ai suoi giocatori: serve tempo e pazienza che in molti sembrano non avere. Per questo le voci di un esonero imminente non si placano fin quando la società di Ferrara non decide di scommettere – ancora una volta – sull’ex giallorosso.
Una scelta coraggiosa che DDR dovrà ripagare: le responsabilità non sono solo sue. Il mercato – a detta dell’ex Roma – è stato surreale. Testuali parole che, però, non cambiano la situazione: la Spal deve risalire se non vuole chiudere nel peggiore dei modi. Qui la domanda resta: cosa sta facendo De Rossi? Se l’intenzione è quella di ricostruire, allora DDR è alle fondamenta. Se, invece, si giudica nell’immediato, DDR potrebbe considerarsi al palo.
Il riscatto di De Zerbi come retta via
Dove sta la verità? Nel mezzo: ovvero, sia De Rossi che Luis Enrique hanno un modo di intendere il calcio che si basa sulla filosofia di gioco. La costruzione viaggia attraverso delle fasi: non solo tramite input. I singoli possono risolvere, ma il collettivo fa crescere. Questo secondo aspetto – che viene premiato all’estero – fa sviluppare tutti e maturare la squadra. I risultati, però, specialmente all’inizio, sono una scommessa. In Italia se non arrivano subito i successi o non si raggiungono immediatamente gli obiettivi, è possibile andare in ansia. A tutti i livelli.
Ecco perché la media punti conta più dell’approccio alle partite, senza pensare che le due cose (assieme al lavoro) sono complementari. Chiedere a De Zerbi che per dimostrare questo semplice assunto è dovuto volare in Inghilterra: al Brighton, oggi, è fra i top manager per quello che propone in Premier. In Italia, dopo l’esperienza Sassuolo, per lui non c’era niente. È dovuto andare allo Shaktar Donetsk, poi la guerra ha mischiato le carte, ma lui sul campo (da gioco e non di battaglia) sarebbe rimasto ancora. In barba ai detrattori e ai frettolosi.
Alla luce di questo conviene iniziare a chiedersi: se certe tendenze e suggestioni all’estero funzionano e in Italia arrancano, è soltanto perché nessuno è profeta in patria, oppure perché il calcio italiano dopo anni di dominio sta andando nella direzione sbagliata? La risposta è tra esoneri scongiurati e la frettolosità di voltare pagina. L’equilibrio fra queste due cose è la chiave di una porta che (quasi) nessuno in Italia vuole tenere aperta. Mentre all’estero stendono i tappeti rossi. Creare problemi o trovare soluzioni: la differenza è tutta qui.