Dino Viola è stato un Presidente, ma è riuscito in qualcosa che pochi altri sono stati in grado di fare: diventare un simbolo di Roma.
Oggi è facile sentirlo cantare distrattamente allo stadio, magari da qualche “ragazzo” con i capelli bianchi, ma basta fermarsi a guardare gli occhi lucidi mentre quel coro prende vita per capire che di facile a Roma – anche e soprattutto nel calcio – non c’è mai stato nulla. Per questo, non appena parte “Dino Dino Viola alè”, i più romantici si lasciano cullare dai ricordi e le lacrime scendono copiose dopo aver inumidito gli occhi.
Dino Viola non è un Presidente, lo è stato ma è diventato – rimanendo – un riferimento. Storia, attaccamento e tradizione in un sol uomo che per la Roma ha innanzitutto tifato e poi amministrato le sorti in prima linea. Una data su tutte: 1942, Pontedera, tra le campagne di Curigliana, era ufficiale di regia dell’aeronautica militare durante la guerra. Il 7 giugno di quell’anno la Roma giocava a Livorno, l’uomo non ci ha pensato due volte: prese la bicicletta e da Pontedera fece 37 Kim alla velocità della luce per vederla. Con lui c’era la signora Flora, sua moglie, caricata di straforo per godere insieme di quel momento meraviglioso.
Dino Viola, l’ingegnere giallorosso: 32 anni senza il Presidente per antonomasia
Chiunque in licenza avrebbe fatto altro, ma Dino Viola scelse la Roma. E non fu neanche la prima volta. Sempre nel ’42 sposa Flora e, quattro giorni prima di quel 30 aprile, arriva a Venezia: addio al celibato sui generis. Niente clamori o feste organizzate, ha fatto tutto la Roma. In gondola per ammirare i giallorossi, non il panorama o gli scorci, ma una squadra: l’unica prospettiva più bella di quello che lo attendeva. Una vita con la sua dolce metà. Trentasette, come i chilometri tra Pontedera e Livorno che fece in bicicletta, anni più tardi di quella Roma diventa Presidente.
Una favola nella favola, di quelle che si raccontano ai figli: Riccardo, Ettore e Federica cresciuti a pane ed emozioni giallorosse. Una simbiosi perenne. Un legame che fa bene al cuore e Dino, di cuore, ce ne ha messo tanto permettendo che Roma vivesse il più bel periodo storico e sportivo dal punto di vista romantico e sognatore. Oggi vincere è un imperativo ovunque. Ai tempi di Dino Viola trionfare nel calcio era un’utopia: il Presidente – così hanno cominciato a chiamarlo data l’empatia con cui si era posto fra la gente – ha portato a Roma la cultura della vittoria.
La cultura della vittoria attraverso l’amore
Storica la sua frase: “Piange il debole, i forti non piangono mai”. A sottolineare la costante abnegazione per sacrifici e lavoro in nome dei trionfi. Falcao, Di Bartolomei, Cerezo, Ancelotti. Pedine di un mosaico senza tempo che consegnò uno Scudetto intriso d’amore, la giusta ciliegina per chi ha vissuto la Roma da fuori e ci è entrato dentro con tutto sé stesso. Senza mostrare la minima supponenza, come un padre dovrebbe sempre fare con i figli. Accanto, ma senza pressioni: Viola era questo. Un faro, che ancora oggi viene “acceso” quando occorre ritrovare la strada.
Visualizza questo post su Instagram
La stessa che lui faceva e ha continuato a fare per vedere la Roma, fino a quel tragico 19 gennaio del ’91. Quando ha salutato tutti senza mai andarsene davvero. Ecco perché ancora oggi qualche magone nello stomaco si fa spazio tra i ricordi, perché Dino Viola resta lo specchio e la testimonianza di un calcio che non c’è più. Dove la sostanza soppiantava la forma e le formalità, senza troppi manierismi. Basti pensare che, dopo aver dato trionfi e dimensione a una piazza sognante tra successi e possibilità, disse: “Io mi ritengo più simpatico che Presidente”. Una delle tante dichiarazioni d’amore folle e disinteressato che hanno accarezzato l’eternità in mezzo a tanti sogni, mezzi gialli e mezzi rossi, non ancora sopiti.