Il Personal Branding è un inquadramento professionale che caratterizza la contemporaneità: il caso Cristiano Ronaldo.
Cristiano Ronaldo non scioglie la riserva sul possibile approdo in Arabia Saudita, nonostante la trattativa con l’Al Nassr sia – nei fatti e nella sostanza – il segreto di Pulcinella: lo sanno tutti, o quasi, ma non deve parlarne (in maniera ufficiale) nessuno. Basti pensare che dalla dirigenza del club – il Direttore Sportivo su tutti – non vola una mosca: “Non è possibile rivelare nulla – fanno sapere – ma c’è in ballo una trattativa grossa. Parleremo al momento opportuno”. Questo significa fare trading, in altre parole: portare avanti il mercato. Cristiano Ronaldo è un calciatore bancomat.
Ovvero: in grado di portare introiti nelle casse di qualsivoglia realtà calcistica al netto delle spese che impone. È uno – in altre parole – che pretende tanto, ma restituisce due volte di più in termini di business. Ai tempi del Real Madrid, Cristiano Ronaldo era invincibile in campo ma anche fuori aveva ben pochi rivali. I Blancos hanno guadagnato milioni solo con il suo nome e le partnership sponsorizzate. Vale a dire che, oltre alla maglietta di Ronaldo, c’era una linea di vestiti e accessori dedicata. Insieme a una serie di altre iniziative legate al nome (marchio) CR7.
Tutte cose che facevano sorridere le casse del club con i guadagni quintuplicati, per la felicità di Perez che aveva trovato la gallina dalle uova d’oro. Questo potere – economico e tecnico – con il passaggio alla Juventus è andato scemando non solo per via della sua (inevitabile) flessione, ma anche a causa di una maggiore presa di coscienza che il Personal Branding – l’inquadramento delle personalità sportive a livello industriale – è una risorsa per tutti. Non solo in funzione dei top player e rispetto ai top club.
Tom Peters applica questo concetto alle industrie del nuovo millennio: correva l’anno 1997 e 25 anni fa il mercato stava prendendo una piega diversa. Quella secondo cui è necessario inquadrare ogni persona talentosa come un possibile marchio da amministrare: ragionare come se fosse un’azienda che cammina, massima che nel caso di Ronaldo calza a pennello.
Le squadre in cui ha militato l’ex United non solo hanno aumentato la propria tecnica, ma anche la credibilità di un fenomeno ambizioso che ha incarnato per molto tempo il prototipo ideale di sportivo, modello e industriale da seguire. Colui che riceve un contenuto – di qualsiasi tipo – e riesce a farlo fruttare perché i clienti rispondono positivamente. Dalla sua Ronaldo ha sempre avuto il talento, ma anche la sfrontatezza necessaria che lo faceva essere una spanna sopra gli altri: ora ha paura che tutto questo svanisca.
Da quando non rende più come un tempo teme che le sue alzate di testa possano essere un boomerang. Ecco perché andare a svernare in Arabia Saudita, anche se potrebbe farlo diventare il calciatore più ricco al mondo (quasi 200 milioni a stagione), vorrebbe dire effettuare un salto nel buio. A livello mediatico Ronaldo non lo dimentica nessuno, ma l’idea secondo cui CR7 possa diventare uno dei tanti anziché l’uomo in grado di fare la differenza blocca un processo che altrimenti sarebbe già accelerato. Per non dire concluso: l’inquadramento, nel business e nel calcio, è tutto. E siccome da qualche tempo sono sinonimi, Ronaldo prima di accettare un ultimo ballo all’Al Nassr ci pensa bene. Una volta delineato il proprio sentiero non si torna più indietro. Anche questo significa fare impresa.
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